Il suolo sta alle rocce ed ai sedimenti che costituiscono la crosta terrestre come la ruggine sta al ferro. Questo ardito paragone ha del vero, nel senso che, In entrambi i casi, si tratta di una patina di alterazione. Patina che nel primo caso ha spessori che si misurano in decimetri o in metri, mentre nel caso della ruggine sul ferro si tratta di decimi di millimetri o di qualche millimetro al massimo. In entrambi i casi si tratta di modificazioni superficiali causate dall’azione degli agenti atmosferici. Ma fermiamici qui con le analogie, perchè–come tutti sappiamo- un suolo à cosa ben diverso da una crosta di ruggine. Innanzitutto esso richiede secoli o millenni per formarsi. Poi, per far si che su di una roccia si formi un suolo non basta affatto che su di essa agiscano i soli fenomeni chimici e fisici che vedono protagonisti l’acqua piovana, i gas atmosferici e gli sbalzi di temperatura. Un vero suolo, nasce quando a quelle azioni si aggiungono anche i fenomeni causati dalla presenza di vita (soprattutto vegetale). Infatti, le sostanze che vengono rilasciate dalle piante mentre vivono e mentre, morte, si decompongono, innescano nuove e preziose reazioni chimiche ed aggiungono al suolo nuovi elementi nutrienti « catturati » dall’atmosfera.
Ad ogni modo, lo spessore e la fertilità di un suolo dipendono anche dalla cosidetta « roccia madre » (il materiale di partenza sul quale il suolo va lentamente a svilupparsi). Se la roccia madre è priva di certi elementi chimici, questi mancheranno anche nel suolo sovrastante.
Detto questo, veniamo al nostro caso specifico. L’ossatura dei monti di Agerola è fatta di rocce calcaree e talora dolomitiche, che chimicamente sono dei carbonati di calcio e magnesio abbastanza puri. Esse, quindi, non presentano una varietà di elementi chimici tale da dare suoli fertili. Ma una cosa ancor più importante è che quelle rocce sono (sia pur lentamente) solubili. Quindi, i prodotti di alterazione cui esse danno origine non restano in superficie a formare suolo, ma sono portati via (in soluzione, appunto) con l’acqua di infiltrazione.Ecco perchè le montagne calcaree ci appaiono spesso brulle ; prive o quasi di vegetazione.
Ma non nella nostra zona ! Almeno non dappertutto. I pendii brulli sono solo quelli più ripidi (di norma sopra i 35-40 gradi di inclinazione), mentre quelli più dolci ed i ripiani appaiono coperti da spessi e fertili suoli che sorreggono una fitta vegetazione boschiva o campi agricoli ben produttivi.
Come mai tanto fertile suolo su dei monti calcarei ? La risposta sta nel fatto che –per nostra fortuna- è calcarea solo l’ossatura dei monti, mentre in superficie si hanno manti di materiale completamente diverso. Si tratta delle cosidette « piroclastiti » cioè di ceneri e pomici vulcaniche che sono state gettate sui nostri monti (come su larga parte della Campania) dalle gradi eruzioni esplosive dei vulcani napoletani. Non solo dal Somma-Vesuvio, ma anche dalle decine di altri crateri che si contano nei Campi Flegrei, su Procida e su Ischia. Per non parlare dei tanti altri centri eruttivi che vi sono nei fondali del Golfo di Napoli e dei vulcani che sono sepolti sotto le piane alluvionali del Sarno e del Volturno.
Il vulcanesimo napoletano è attivo da centinaia di migliaia di anni e, in tutto questo periodo, i Monti Lattari sono stati spesso raggiunti da cospicue piogge di ceneri, pomici e lapilli che, lì per lì, hanno fatto danno, ma alla lunga hanno beneficiato l’area di un materiale estremamente adatto a generare fertili suoli. Sia perchè fine e sciolto, sia perchè molto ricco di una varietà di elementi chimici.
In genere, il destino di questi manti è quello di essere asportati dai pendii montuosi ; sia col lento lavorio delle acque ruscellanti dopo intense piogge (al che fanno efficace contrasto i manti vegetazionali intatti o ben gestiti), sia mediante distacchi improvvisi del tipo di quelli occorsi, con tragiche conseguenze, sui nostri monti nel 1996, sui Monti di Sarno nel 1998 e ad Ischi il 30 aprile di quest’anno.
Per la sua piattezza e stabilità, l’altipiano agerolese ha conservato pressocchè intatti i vari strati di piroclastiti che tante eruzioni vi hanno lanciato nel corso di circa mezzo milione di anni. In totale, il loro spessore giunge sino ad una ventina di metri. I termini più antichi (e più profondi) di questo manto sono delle ceneri così tanto alterate da essersi trasformate in argille rossastre (quelle che in dialetto chiamiamo creta mascola, ossia verace). Muovendosi verso l’alto e passando, quindi, a materiali di eruzioni meno antiche, abbiamo ceneri poco argillificate (creta) di colore ocra ed ocra-arancio a luoghi contenenti pomici molto sfatte e di colore giallino. Questi colori forti sono tutti dovuti all’alterazione chimica subita dai depositi vulcanici dopo la loro caduta. In origine le ceneri e le pomici dovevano essere tra il bianco ed il grigio chiaro.
Tra uno strato ed un altro si trovano anche antichi suoli sepolti il cui colore bruno, più o meno scuro, dimostra la presenza dell’umus organico lasciatovi dalla vegetazione dell’epoca. Il più recente di questi suoli bruni sepolti è quello di epoca romana, che risulta coperto dai prodotti della famosa eruzione del 79 d.C. ; quella che seppellì Ercolano, Pompei e Stabia. Essa portò ad Agerola circa un metro e mezzo di pomici bianche e grigio chiare, seguite forse da pochi decimetri di ceneri.
La successione di strati sin qui descritta si ritrova completa di tutti i suoi termini solo nelle zone pianeggianti. Sui pendii montuosi abbiamo, invece, delle successioni incomplete e di spessore ridotto a causa delle asportazioni erosive intervenute tra una eruzione e l’altra e dopo l’ultima eruzione. In particolare, si osserva spesso che sui pendii (anche lievi) le pomici del 79 d.C. sono ridotte a spessori di pochi decimetri, potendo persino mancare del tutto laddove la pendenza è più forte. Altro aspetto tipico dei nostri pendii montuosi è quello di presentare fitte alternanze di tratti rocciosi e tratti terrosi. Ciò dipende dal fatto che il fenomeno carsico (ossia il lento scioglimento della roccia) ha per millenni scolpito la superficie del calcare creandovi una miriade di solchi, fossi e tasche di dimensioni che vanno dai centimetri ai metri. E’ dentro questi avvallamenti protetti che si conservano, a macchia, le piroclastiti; mentre le interposte lame e guglie calcaree le hanno via via perse per l’azione erosiva delle acque ruscellanti e delle frane.
Un altro caso un pò particolare è quello dei pendii sistemati a terrazzi agricoli (chiazze, ossia « piazze » in dialetto locale) retti da muretti in pietra calcarea a secco (in dialetto macere e macerine a secondo della maggiore o minore altezza). Di particolare vi è il fatto che il materiale terroso che ogni macera sostiene è stato –almeno in parte- portato lì dall’uomo, che lo ha prelevato talora dagli immediati dintorni e talora anche da siti parecchio distanti. Ciò comporta che esso presenta rimescolati i vari livelli che caratterizzavano le coltri naturali da cui fu prelevato. In particolare, esso tende a presentare pomici frammiste a materiale fine (cineriti sabbioso-limose) un pò su tutto lo spessore del riempimento. Inoltre. il materiale terroso che i nostri antenati hanno accululato -con grande pazienza e fatica- dietro le macere si presenta spesso abbastanza ricco in humus su tutto lo spessore del riempimento. Ciò per due semplici motivi : uno è chè si preferì trarlo dalle parti più alte e più umifere (più fertili, quindi) dei suoli naturali presenti nelle aree circostanti alle chiazze che si stavano realizzando ; l’altro è che spesso le aree da cui attingere terra (di solito i tratti più ripidi dei pendii a monte dell’area da terrazzare) avevano suoli spessi pochissimi decimetri e formati interamente dall’orizzonte umifero.
Per tutto quanto sin qui osservato possiamo dire che i suoli dell’area agerolese sono suoli di origine vulcanica sviluppati su antichi materiali piroclastici.
Tali materiali sono ben noti per la loro straordinaria ricchezza in elementi chimici utili alle piante (tra cui potassio, sodio, silicio, magnesio, calcio, ferro, alluminio, zolfo), per la loro grande capacità di assorbire e trattenere l’acqua (di vitale importanza durante la stagione secca) e per la facile lavorabilità che essi presentano.
Una buona descrizione dei suoli che caratterizzano la nostra zona può trovarsi sul volume « I suoli della Provincia di Napoli » (Collana Studi sul Mezzogiorno) edito dal CUEN nel 1995 su iniziativa della Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Napoli. L’elenco degli autori (A. di Gennaro, A. D’Antonio, M. R. Ingenito, L. Lulli, G. Marseglia, F. Terribile e L. Toderico) include alcuni tra i migliori pedologi italiani.
La carta allegata a tale opera mostra il territorio di Agerola occupato da tre tipologie di suolo, designate con le sigle da RCA 1 a RCA3.
RCA1 occupa i versanti esposti a nord e a nord-est ed il loro utilizzo prevalente è quello del ceduo a castagno. Alle massime quote (di norma sopra i mille metri) vi si sviluppano fustaie di faggio. Alle quote minori si presentano anche destinati a frutteti ed orti arborati.
Hanno reazione moderatamente acida dove si sviluppano sui prodotti della eruzione del 79 d.C. (Vitri-Umbric Andosols), ma –dove questi ultimi sono stati erosi e, quindi, il suolo è impostato sulle sottostanti ceneri antiche ocracee, la reazione arriva ad essere fino a molto acida (Haplic Andosols). A compensare questo aspetto interviene l’elevata disponibilità di basi. La capacità di ritenzione del fosforo è alta (>85%) ma la notrizione fosfatica delle essenze forestali non ne risente, potendo avvenire in prevalenza attraverso l’associazione simbiontica micorrizica.
Tale categoria di suoli, essendo associata a pendii più o meno acclivi, è esposta al rischio di erosione accelerata, per cui il mantenimento della loro alta produttività può aversi solo evitando la ceduazione a taglio raso troppo frequente, i danni al sottobosco per strascinamento dei pali, gli incendi ed il pascolo eccessivo.
RCA2 occupa gli ampi pianori di Agerola e quelli, meno estesi, che si hanno in cima ad alcuni dei rilievi che racchiudono la conca agerolese (Pontechito, Megano). Il loro utilizzo prevalente è quello degli orti arborati, dei frutteti e delle colture foraggiere. Alle quote maggiori e, localmente, anche entro Agerola vi domina ancora il castagneto ceduo.
Hanno grande spessore, permeabilità moderatamente alta, capacità di acqua disponibile elevata e reazione moderatamente acida (Vitri-Mollic Andosols). La capacità di ritenzione del fosforo è alta (>85%). La esposizione al rischio di erosione accelerata è di norma contenuta grazie alle afficaci opere di terrazzamento.
RCA3 raggruppa i suoli dei versanti montuosi molto ripidi e quelli mediamente ripidi che sono esposti a sud e sud-ovest. Le loro coperture vegetali tipiche sono quelle della macchia, più o meno degradata, e delle praterie xerofile. L’uso produttivo di questi suoli è per lo più il pascolo. Sono suoli sottili, a luoghi pietrosi e spesso discontinui (alternanze con tratti di roccia calcarea esposta) che hanno reazione neutra (Andi-Eutric Leptosols). Il rischio di erosione idrica è elevato ed andrebbe contrastato sia mediante la riduzione e la attenta gestione delle fasi di pascolo, sia mediante la prevenzione degli incendi ed i rimboschimenti.
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